PREZENTADO DE LA BLOGO


Prezentado de la blogo:

La vortoj havas nek semantikan, nek lingvan limon. Eble ilia unika, efektiva, limsigno estas tiu kiu apartigas la revon de la realeco. En la blogo estas miaj poeziaĵoj, rakontoj, recenzioj, ktp, du-lingve, paralele. Eo estas internacia lingvo kiu naskiĝis en la dua duono de deknaǔa jarcento el ideo de unu homo: Zamenhof. Li esperis, ke per la uzo de neǔtrala lingvo, ĉiuj la lingvaj limoj /kaj ne nur la lingvaj limoj/ inter la popoloj de la mondo estus transpasitaj, finfine.


mercoledì 17 luglio 2019

La bolla

 Ho scritto questo racconto anni fa. L'ho pubblicato in diversi forum di scrittura e ora lo ripropongo anche qui. 

I Parte



– Ti sembra un comportamento giusto, il tuo? – chiese Simone rimanendo in piedi sulle gambe divaricate, ma in un precario equilibrio, incurante del fatto che, senza un baricentro stabile, sarebbe potuto cadere da un momento all'altro.

Le dita della mano destra erano piegate ad artiglio a causa di un tic nervoso al quale egli non poneva più attenzione dal giorno in cui le peculiarità fisiche di qualunque essere umano, comprese le proprie, avevano smesso di apparirgli interessanti.

Silvia non gli rispose. Non emise un suono, non accennò un gesto. Sebbene lo ascoltasse (giacché la scarsa distanza fra i loro corpi rendeva impossibile arrestare il propagarsi del suono prima che esso penetrasse i suoi timpani), sembrava che lì, nella stanza con lei, non ci fosse nessuno; che la lama di nessuna parola minacciasse di fendere il silenzio impenetrabile dentro cui si era accoccolata.

Non tentò neppure un moto di protesta circa l'intromissione dell' “estraneo” dentro il proprio spazio vitale: una bolla trasparente ricca di ossigeno, di cui si nutriva con morsi famelici. Normalmente niente e nessuno avrebbe potuto distoglierla dal torpore emozionale in cui amava muoversi come un'ombra senza forma.

– Posso sperare in un po' di comprensione? in un po' di disprezzo? – insistette l'uomo provocatoriamente, tentando di strapparla a forza dal luogo di clausura interiore dove si rifugiava, ormai, per periodi sempre più lunghi e a intervalli sempre più esigui. – Ti degneresti di rispondermi, almeno? – sbottò, suo malgrado, mentre stava ancora tentando di dominare, in ogni modo, l'onda rabbiosa che sentiva gonfiarsi nel petto con l'irruenza di uno<i> tsunami </i>devastatore.

Silvia, per alcuni secondi, spinse il proprio sguardo neutro sugli occhi di <i>lui</i>.

La curiosità di constatare da quale umore fossero attraversati adesso gli specchi neri di un' anima così possessiva, bramosa di risposte, l'affascinò al punto da farla uscire fuori dall' isolamento.

La vivacità dell'occhiata, che lanciò all'altro, si sostituì in un lampo all'indifferenza piatta con cui lei era solita passare in rassegna le presenze animate e non, cadute nel proprio orizzonte visivo. – Vorresti che ti dicessi ciò che si aspetta un marito? – gli chiese, cogliendolo di sorpresa.

– Sarebbe un inizio... – ammise l'uomo, avanzando di qualche passo verso il divano. Avrebbe tanto desiderato allungare la mano per accarezzarle il volto; per tentare di riscaldare, con il palmo della mano, il freddo pungente che osservava, impotente, vessare la pelle d'alabastro. Avrebbe voluto abbracciare la moglie finché ogni singola scheggia di ghiaccio, conficcata nel suo fragile cuore, non fosse stata disciolta dal calore confortante che le avrebbe trasmesso. Ma egli rifuggì dall'idea immediatamente, perfino nell'immaginazione. Se soltanto avesse provato ad avvicinarsi ulteriormente, Silvia avrebbe scrollato la testa. Quanto odiava quelle scrollatine impercettibili con con cui presidiava il proprio territorio, difendendolo dalle intrusioni nemiche!

– Io ti comprendo, io non ti disprezzo, – lo rassicurò lei.

La risposta gettò l'uomo nello sconforto. – Sai una cosa? Non m'importava sentire ciò che avrebbe detto una moglie, <i>mia </i>moglie, – egli soggiunse, con asprezza malcelata.

– Credevo di sì. Devo aver frainteso. – Lei parve scusarsi.

– Adesso dimmi pure quello che preferisci, – la incitò Simone. La richiesta, si accorse un attimo dopo averla formulata, gli era uscita fuori a causa di un <i>lapsus</i>. La rinnovata delusione (scoccata dalla bocca di lei più letale di una freccia avvelenata), aveva spazzato via i pochi rimasugli di speranza – già lacerati – che albergavano in qualche cantuccio del suo amore anchilosato.

la curiosità di Silvia verso Simone, intanto, si era esaurita nell'arco di pochi battiti di ciglia. Subito dopo lo sguardo della donna si era fissato nuovamente sulla bolla e, attraverso le sue pareti trasparenti, lo aveva fatto scivolare lontano, oltre ogni cosa che aveva scorto vorticare intorno; oltre i riflessi (trepidanti, esigenti, collerici, rassegnati) che aveva intravisto negli occhi questuanti del marito.

Fuori dalla bolla gli oggetti tornarono a danzare uniti, in una spirale caotica di casualità e determinazione. Ella non sapeva quale consistenza avessero al di là delle pareti opalescenti, le quali, pur sottilissime, frapponevano un filtro efficace fra sé stessa e tutto il resto. Non c'era motivo che lo sapesse perché l'informazione non avrebbe influito sul grado, assai attendibile, delle sue percezioni.

– Questa faccenda non mi riguarda, – concluse lei, offrendo al suo interlocutore un'eloquente <i>tabula rasa</i> di emozioni. Quindi, rotolò di nuovo dentro un silenzio irreale da cui non fece trapelare il minimo crepitio.

Egli rimase in piedi dov'era, contemplando il viso d'alabastro della moglie, con l'artiglio di carne che non gl'ispirava il più piccolo ribrezzo così come non gli suscitava la più fievole pena.



II Parte



All'improvviso un pensiero gli attraversò la mente con la veemenza di un proiettile vagante che gli avesse trapassato la testa da parte a parte. Simone si girò di scatto, raggiungendo la finestra aperta del salotto con poche falcate.
Silvia era ora dietro le sue spalle. L'immagine di lei strappata via dai suoi occhi; la sua indifferenza, rivestita di piombo, una cappa di nebbia diradata da un vento pacificatore.
– E' maggio! – esclamò l'uomo affacciandosi fuori.
Mentre sfidava con noncuranza l'horror vacui, che già avvertiva salirgli lungo la spina dorsale, respirò l'aria fresca. Se gli fosse sembrato necessario, non avrebbe esitato ad arrampicarsi sul tetto del condominio, in preda alle vertigini. Avrebbe fatto le cose più folli pur di risentire quella sensazione familiare di felicità!

La prima volta che l'aveva avvertita era stato venticinque anni prima, durante il tragitto che percorreva a piedi per raggiungere la scuola elementare.

Come d'abitudine camminava a testa bassa, con lo sguardo rivolto a terra. A chi gli chiedeva la ragione di quella postura, rispondeva di non voler inciampare in qualche ostacolo. In realtà, con tale espediente, cercava di sfuggire le espressioni di dileggio dei compagni di classe i quali, poco discosti da lui, facevano a gara a imitare la sua mano ad uncino. Dopo l'esibizione degli attori in erba, ci sarebbe stata la proclamazione del vincitore: colui che si fosse accaparrato più consensi per la propria performance, sarebbe stato nominato “capo” del gruppo per l'intera giornata.

Le voci degli idioti assalivano i suoi orecchi come ronzii molesti; l'aspetto di quello sciame di mosche disgustose, svolazzanti sopra l'epidermide della mano, gli suscitava conati di vomito. Soltanto lui poteva udire il particolare clangore delle loro ali tozze; poteva notare le macchie orripilanti che sfregiavano la freschezza della loro infanzia annoiata

Il rituale fisso lo aveva stancato fino a sfinirlo. Avrebbe dovuto reagire. Se lo era imposto mille e mille volte. Una volta o l'altra avrebbe posto fine allo scherno eterno, prendendo la questione di petto. Per mettere a tacere quel branco di stupidi l'unica soluzione era quella di fare a botte. Per guadagnarsi il rispetto del gruppo non c'era altro mezzo che mostrarsi risoluto a livello fisico, picchiando a destra e a manca, con calci, pugni e spinte. Sarebbe stato un bambino che si sarebbe difeso dalla prepotenza di altri bambini. Che cosa ci sarebbe stato di strano? Niente, a parte il fatto che lui era un bambino di un' altra risma. Aveva un temperamento pacifico e odiava la violenza. Ciò lo frenava ogni qual volta la rabbia lo spingeva, invece, in posizione di contrattacco.

Che fare, allora? Non lo sapeva. Ma quel giorno decise di non fuggire più. Lo decise e il resto avvenne. Alzò la testa e sfidò il gruppetto semplicemente guardandolo. I compagni di classe, come ogni mattina, procedevano in due file compatte, ai suoi lati, sbeffeggiandolo nei modi più creativi. Quello sguardo infuocato li disorientò facendoli arretrare. Intorno cadde un silenzio meraviglioso. Le ali delle mosche si chiusero. Il disorientamento durò il tempo sufficiente affinché lui, prendendoli in contropiede, iniziasse a correre talmente veloce da distanziarli poco dopo.

Corse a perdifiato finché non fu sicuro di averli seminati. Giunto in prossimità del cortile della scuola, si nascose dietro un albero. Aveva il fiato corto e il cuore gli batteva a una velocità impressionante. Mentre stava inspirando ed espirando ripetutamente, i suoi occhi si alzarono e si fissarono sul cielo. Era uno sfondo omogeneo ricoperto dai toni dell'acquamarina e del lapislazzulo.

Non aveva mai visto niente di più bella di vita sua. Preda di un'eccitazione irrefrenabile, continuò a osservare il cielo azzurro che si estendeva, senza interruzioni, in tutte le direzioni.





III Parte





Da allora, anno dopo anno, allorché la primavera giungeva al culmine, la stessa euforia lo catturava improvvisamente e lo spingeva ad alzare il viso in alto – ovunque si trovasse – per guardare il cielo.

Il piacere provato nel contemplare la distesa assolata (che lo avrebbe sovrastato da un'altezza vertiginosa), era un regalo che riassaporava sempre con gratitudine, mentre lacrime invisibili di gioia gli colavano dagli occhi assetati di luce; e in quelle visioni la luce esplodeva da ogni angolo, con una vitalità abbacinante.

Lo spettacolo sempre identico a sé stesso, eppure alimentato da una linfa sempre nuova, lo riempiva di una felicità opulenta che traboccava, in pochi istanti, oltre i ricettori sensoriali sparsi sull'epidermide. Era come se ogni fibra del corpo fosse sollecitata da molteplici sensazioni e lui non riuscisse né a distinguerle, né a gestirle. La felicità, che lo faceva fremere a fior di pelle, aveva il potere di penetrargli fin dentro gli anfratti più oscuri dell'anima, illuminandoli con milioni di piccole fiammelle guizzanti.

L'impulso di scrutare il cielo, ricevendone in cambio una sensazione di leggerezza e di perfezione, gli sembrava un privilegio così prezioso che, spesso, si ritrovava a pensare che su di esso ci fosse una data di scadenza; che la speciale felicità, rispuntata fuori ad ogni primavera, prima o poi gli sarebbe stata sottratta da qualcuno. Quando sarebbe accaduto – e non dubitava che sarebbe stato così – non avrebbe esitato a sfoderare gli artigli, pur di riappropriarsene. Non avrebbe tentennato ancora.



Anche quando la incontrai la vera primavera arrivò puntuale a maggio”, pensò Simone. Erano passati già dodici anni. Incredibile! Uscito di casa, aveva risentito nascere un' agitazione crescente alla bocca dello stomaco e, senza chiedersi altro, si era precipitato istintivamente dove avrebbe goduto una privatissima epifania.

Si era fermato sul marciapiede. Ecco un luogo perfetto che avrebbe soddisfatto il suo bisogno di osservare il cielo. Aveva davvero un'altezza prodigiosa. Come si poteva soltanto immaginare di sfidare con lo sguardo la distanza incalcolabile che esso frapponeva fra sé e tutto ciò che stava sotto? All'apparenza era qualcosa di delicato – un ammasso di toni di blu mischiati tutti insieme su una tavolozza incorporea composta di luce – ma la sua vastità conservava una forza violenta che poteva esplodere in ogni istante.


Era questa constatazione che gli aveva tolto il respiro?

Forse, ma non solo. C'era stato dell'altro. Aveva udito una risata, fresca, disarmante, contagiosa; e poi gli arrivata una frase: – Giochiamo al gatto e al topo? D'accordo. Tanto vincerò io!

Riabbassando lo sguardo aveva notato una donna rincorrere un cappello di paglia, a pochi metri di distanza. Era lei che rideva cercando di acciuffarlo, mentre il vento lo spostava sempre più lontano.

Poi si era voltata. Ed era stato allora che lui aveva visto la sua pelle bianchissima risplendere sotto i raggi del sole...



Silvia, avvolta nel suo torpore, vagava in lungo e in largo attraverso gli spazi sconfinati del proprio deserto interiore, popolato da dune d'assenza e d'oblio. La bolla era un'ombra fidata e fedele. Senza la sua compagnia si sarebbe sentita sola.
“Che cosa guarda? Che cosa ricorda?” s'interrogò, destata per caso dal sonno dell'eremitaggio in cui si era confinata.





IV e ultima Parte





Lei, invece, aveva smesso di ricordare. Da principio era stato difficile imparare a vivere unicamente nel presente. Però c' era riuscita. Il passato era stato risucchiato, pezzo dopo pezzo, dentro un buco nero da cui – si augurava – non sarebbe mai "evaso". Era stata una ferrea volontà a spingere la sua memoria in quell'abisso di distruzione, strappandola dal feroce attaccamento che essa aveva sempre dimostrato nei confronti degli oggetti di cui si riempiva; perciò, adesso, nessuna disattenzione, nessun imprevisto avrebbe concesso a<i> ciò che era stato</i> la facoltà di riassaporare la libertà.

Hai ancora il cappello di paglia con il nastro giallo? – le domandò Simone rompendo il silenzio in cui entrambi galleggiavano, inerti.

L'ho buttato via l'anno scorso durante le pulizie.

Peccato! Ti regalava un'aria felice.

Non ho mai avuto un'aria felice, tanto meno con quel cappello; fingevo soltanto di averla, – replicò Silvia, infastidita dal fatto che il marito la costringesse a ricordare. Si vedeva obbligata ad aprire il buco nero e a frugarci dentro per rimpossessarsi di un frammento che aveva gettato via. S'immaginò di rovistare nel sacco per l'immondizia dei rifiuti indifferenziati. Oltre un tanfo pestilenziale, si domandò che altro avrebbe trovato.

Perché fingevi di essere felice?, – chiese Simone, sbalordito dalla sconcertante ammissione.

Quando credono che tu lo sei, smettono di renderti il fulcro della loro perfidia e iniziano a girarti al largo, – fu l'altra risposta inattesa di Silvia.

Egli annuì, ricordando come i compagni di classe avessero dirottato le loro vessazioni su un nuovo bersaglio allorché lui era cambiato, dopo la ribellione e la successiva fuga. Si voltò, fissandosi di nuovo sul volto femminile: sulle sopracciglia, sulle occhiaie più marcate del solito: due macchie nere che contaminavano l'immacolata purezza dell'incarnato. Gli si rivelò un' epifania ancor più sorprendente di quella trascendente a cui si abituato. – Io credo che tu sia infelice da molto tempo, – le disse lui con una schiettezza assoluta, priva di qualunque remora.

Lei non smentì l'opinione, né la confermò. Come al solito lasciò che tutto fosse libero di accadere e di compiersi; di nascere e di morire. Fuori dalla bolla invisibile (in cui respirava pur rimanendo quasi separata fisicamente dalla vita), tutto e tutti erano liberi di assumere ogni forma e ogni consistenza avessero desiderato.

Quando ti racchiudi in te stessa la tua infelicità si smorza, almeno? – la incalzò ancora Simone, a bruciapelo e senza arretrare di un millimetro davanti al silenzio tombale che leii gli opponeva.

Qualcosa accadde. La donna esitò. L'oblio era diventato la sua certezza, ma ora i ricordi stavano fuoriuscendo dal buco nero, sospinti da un flusso emorragico. Le pareti della bolla si restringevano sempre più, la stavano espellendo, era una sequenza errata di DNA che, improvvisamente, doveva essere distrutta. – Non si alleggerisce affatto, – ammise lei.

Simone sorrise, realmente felice perché sentiva di essere penetrato dentro la bolla della moglie. Soddisfatto, tornò nuovamente a fissare il cielo. Lo guardò con occhio riconoscente. Le sue sfumature si stendevano per ogni dove, nell'immobilità assolata dell'ennesima primavera. Provò una rinnovata sensazione di pienezza e di gratitudine.

Vieni qui, – la chiamò. – C'è qualcosa che vorrei tu vedessi.

Trascinandosi dietro la propria bolla in disfacimento, Silvia si alzò dal divano e andò alla finestra.

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